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Le giravolte pseudo-storiche di Gianfranco Fini
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Il gioco di squadra tra Fini e la comunità ebraica

Quel notorio «voltagabbana» che è l’attuale attuale presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, non contento di aver rinnegato le sue radici politiche (e fin qui la cosa è legittima potendosi sempre cambiare idea benché lo si dovrebbe fare con un po’ di dignità, e lui non ne ha avuta granché), la mattina del 16 dicembre 2008, durante la celebrazione dell’anniversario delle leggi razziali, si è permesso di affermare che neanche la Chiesa cattolica si sarebbe opposta a quelle leggi (1).
Non da ora colui che solo nel 1990 si definiva ancora «il fascista del 2000», e che oggi è invece tutto proiettato nel progetto personalissimo di diventare leader della destra liberalconservatrice italiana, mostra la sua obbedienza verso coloro ai quali deve molto in termini di sdoganamento politico, anche internazionale.
Ma l’essere stato sdoganato non lo ha salvato però da una atavica ignoranza della storia.
L’affermazione fatta da Fini sulla presunta non opposizione della Chiesa al razzismo neopagano che si tentò [fu un grande errore del regime di Mussolini, fino a quel momento tutt’altro che antiebraico] di introdurre nel 1938 anche in Italia, riecheggia pienamente quella tesi storica, molto cara alla comunità ebraica italiana, secondo la quale gli italiani lungi dall’aver mal sopportato quella innaturale deriva razzista del fascismo ne sarebbero stati complici più o meno confessi.
Esattamente il contrario della tesi, molto più realistica e storicamente fondata, per la quale invece il popolo italiano subì le leggi razziali, che rappresentarono anche il momento, dopo gli anni del consenso, dell’inizio del suo distacco dal regime, poi completatosi per via dell’esito disastroso della guerra.

Questa seconda tesi, ben ampiamente documentata dal grande storico del fascismo Renzo De Felice e che trova conforto dimostrativo proprio nell’immenso sforzo propagandistico profuso dal regime per fare accettare obtorto collo ad una refrattaria opinione pubblica il razzismo benché nella sua edulcorata versione italica, ha infatti agli occhi della comunità ebraica il grande difetto di sostenere che se il popolo italiano non accettò, se non malvolentireri, le leggi razziali ciò fu dovuto al millenario influsso cattolico di carità, anche verso gli ebrei, che ne aveva forgiato spiritualità e cultura.
Influsso riscontrabile persino nella cultura e nella biografia di tanti esponenti di primo piano dello stesso fascismo, compreso Mussolini.
Ecco dunque che si fabbrica ad arte, e senza prove sufficienti, la contraria tesi per la quale gli italiani avrebbero invece nutrito atavici sentimenti antisemiti (senza naturalmente distinguere tra antigiudaismo ed antisemitismo e tutto raccogliendo indistintamente in un unico calderone accusatorio: esattamente quanto è uso fare da parte del potere giudiziario di uno Stato totalitario quando si vuole «incastrare» il nemico di regime), dimodoché tale tesi, abilmente messa in bocca al presidente della Camera, serva allo scopo di inchiodare al senso di colpa il popolo italiano per un passato che in realtà mai vi fu nei termini pretesi dalla comunità ebraica e che, come quello tedesco, non deve passare mai, perché strumentale a certe egemonie spirituali, culturali, politiche e persino geopolitiche.

Prestandosi a questo gioco, Gianfranco Fini, altrimenti noto come «mister Kippà», è diventato l’utile strumento anche al fine di rinvigorire le calunnie alla santa memoria di Pio XII, sostenute dallo stesso fronte che si oppone alla sua beatificazione e che comprende gli esponenti romani e milanesi della comunità ebraica oltre a non marginali parti del rabbinato israeliano ed americano (benché - è doveroso segnalarlo - altre consistenti parti del medesimo rabbinato sono invece ormai su posizioni di onesto riconoscimento storico di quanto Papa Pacelli fece per salvare gli ebrei perseguitati).
Fini dunque si fa strumento per continuare a diffondere la menzognera leggenda nera ai danni della Chiesa, probabilmente ben consapevole che egli con la Chiesa dal punto di vista della sua vita privata, tutt’altro che limpida, ha un grande contenzioso morale.
Alle esternazioni di Fini circa le presunte colpe antisemite della Chiesa cattolica molti storici, ad iniziare da padre Sale, storico gesuita de «La Civiltà Cattolica», hanno replicato, tra l’altro facendo fare a mister Kippà una figuraccia dal momento che ne hanno evidenziato le forti lacune storiografiche.
Figuraccia che Fini si sarebbe potuto risparmiare se non si fosse fatto imbeccare, e probabilmente materialmente scrivere, il discorso, che ha accusato il popolo italiano e la Chiesa di intrinseco antisemitismo, direttamente dal presidente della comunità ebraica italiana, Gattegna, che non a caso, la sera stessa del 16 dicembre scorso, gongolava di fronte alle telecamere dei telegiornali con la gioia di colui che, sotto Natale, è riuscito a piazzare al momento opportuno e nel luogo
opportuno, ossia in un ambito di grande risonanza mediatica ed istituzionale, la tesi storica, sopra illustrata, propugnata dai vertici rappresentativi degli ebrei italiani (non sappiamo con quanto partecipazione ed adesione di questi ultimi o di tutti questi ultimi).
Fini, come detto, deve molto della sua fulminea carriera politica agli appoggi della comunità ebraica italiana e dello Stato di Israele.
Con questa ultima esternazione, egli ha dato ai suoi legittimatori politici la dimostrazione che finalmente il suo percorso di «rieducazione noachica» è giunto al termine.
Ma ha al tempo stesso dato un’altra ben più triste dimostrazione, ossia quella della tendenziale trasformazione della nostra democrazia in una sorta di «teocrazia rabbinica» sul modello di quel che è oggi lo Stato israeliano.
Fini, infatti, ha recitato, apertamente e presumiamo consapevolmente, la parte del rappresentante istituzionale di uno Stato, quello italiano, sedicente «laico» che prende consiglio da un’«autorità spirituale» in una vera e propria riedizione, in brutta, anzi bruttissima, copia, un totale rovesciamento metafisico, del rapporto, del tutto legittimo ai tempi dello Stato confessionale ma non altrettanto in tempi che si proclamano da almeno due secoli a questa parte emancipati dall’«oscurantismo religioso» (termine con cui si vuole però indicare esclusivamente il presunto «oscurantismo religioso cattolico» e non altri), che sussisteva tra la Chiesa ed il sovrano.

Mentre da un lato semplifica in modo storiograficamente inammissibile il giudizio storico su eventi del passato, dall’altro lato Fini si erge, con l’eroismo del poi, a «fervido combattente contro il Male Assoluto», vigliaccamente però conservando il silenzio, questo sì ampiamente colpevole perché, a differenza del piagnisteo sulla persecuzione nazista, attualissimo, su quanto sta oggi avvenendo di tragico e di razzista, sì diciamolo pure perché è la verità: razzista!, in Terra Santa (2).
Questa volta, però, a parti rovesciate, con gli israeliani nel ruolo degli aguzzini, benché - è giusto dirlo - non tutti in quanto le luminose eccezioni invocate da Fini per il passato vi sono anche nel presente, ed i palestinesi, che non sono tutti islamici (ed anche se lo fossero nulla cambierebbe) essendo in parte anche cattolici e cristiani, persino in taluni casi di origini apostoliche, nel ruolo delle vittime del nuovo «olocausto», quello che loro chiamano «nabka». 
Certo sarebbe ora che la si finisse con i politici che usano, deformandola, la storia per loro utilità di governo.
Consapevoli che purtroppo un tale vizio non scomparirà tanto facilmente, poniamo tuttavia a quei cattolici tradizionalisti che magari lo hanno, anche recentemente, votato la domanda: lo rivotereste ancora un tale «bamboccione mediatico», uno che in vita sua non ha mai lavorato veramente?
La Chiesa, per Sua divina essenza, vola sulle ali dell’eternità e non saranno certamente le stolte dichiarazioni di un uomo, culturalmente piccolo piccolo e di temporaneo potere, ad offuscare millenni di Carità e di Luce che la Chiesa, pur tra le molte debolezze dei suoi figli e di tutti noi cristiani, ha donato all’umanità.
Come, da qualche parte, citiamo a memoria, ha scritto Maurizio Blondet: Fini ed i suoi colonnelli sono al contrario destinati ad essere gettati nel cesso del dimenticatoio della storia!

Tuttavia, siccome molti buoni ma disinformati cattolici potrebbero rimanere sfavorevolmente impressionati dalle stupidaggini finiane, passiamo alla disamina di quale fu il comportamento di Pio XI nei confronti del regime di Mussolini a proposito delle leggi razziali.

Due importanti questioni preliminari

Coloro che accusano la Chiesa di essere stata corresponsabile della persecuzione antiebraica omettono di ricordare però, non a caso, due importanti questioni.
La prima, alla quale abbiamo già accennato, è la necessità, proprio per un’esatta comprensione della storia e delle relazioni ebraico-cristiane nel corso dei secoli, di non dimenticare l’essenziale diversità sussistente tra l’odioso antisemitismo a base razziale, che nasce nel XIX secolo dal miscuglio di darwinismo positivista ed occultismo teosofico, e l’antigiudaismo a base teologica della Chiesa, la quale pur circoscrivendo, in passato, con, spesso non infondato, sospetto le comunità ebraiche, e la circoscrizione nei ghetti altro non era, che lo si voglia o meno, una protezione garantita dalla Chiesa e ben accetta agli stessi ebrei, non ha mai praticato o predicato verso di esse la violenza gratuita: anzi la Chiesa è sovente intervenuta d’autorità, anche inquisitoriale, per sedare ogni abuso verso gli israeliti, laddove il popolino cristiano si abbandonava, a torto o a ragione, a pogrom di varia natura (3).
La seconda questione, che Fini neanche sospetta, è quella della deriva sionista dell’ebraismo odierno.
Quella ebraica da pura fede nella Trascendenza Divina, secondo la Rivelazione abramitica, è gradualmente diventata una funesta ideologia messianica intramondana.
Tale deriva era già evidente prima di Cristo ed ai tempi di Nostro Signore, ed è in tale deriva, rimproverata da Gesù ai dotti di Israele come tradimento dell’autentica fede di Abramo, che in Lui finalmente trovava adempimento, che bisogna cercare la causa del conflitto tra il nascente
cristianesimo, perseguitato dalla sinagoga, ed il giudaismo talmudico.

Gli Atti degli Apostoli testimoniano la nascita di tale conflitto da parte ebraica con l’episodio del cruento martirio di Stefano.
La deriva pseudo-messianica del giudaismo si perpetuerà nel tempo fino, dopo le ripetute delusioni degli innumerevoli falsi messia (Bar Kokheba, Sabbattai Zevi, Jacob Frank, etc.), alla messianizzazione dello stesso popolo ebreo che il rabbinato, reinterpretando il passo di Isaia (capitolo 52 e 53) nel quale il profeta descrive le sofferenze del «Servo di Jahvé», fa assurgere al ruolo di «Messia collettivo».
Ed è qui, nell’idea di un popolo messianico, di una nazione messianica con uno scopo escatologico del tutto mondano consistente nel portare al mondo la Pace dell’era messianica, scopo che presume naturalmente l’egemonia spirituale di Israele, idea che a ben riflettere fa capolino anche nella tradizione puritana americana quando agli Stati Uniti è attribuito un «destino manifesto», un mandato divino per la realizzazione in terra del regno di Dio, che si innesta l’ideologia sionista oggi accettata dalla maggior parte dei rabbini, i quali inizialmente ne diffidavano per il suo carattere secolare, come strumento provvidenziale per la realizzazione del destino messianico di Israele.
In tal senso, il sionismo si presenta con gli stessi tratti di millenarismo messianico che caratterizzò l’ideologia nazista.
Ed infatti molti storici, anche di parte ebraica, un nome per tutti: George Mosse, hanno ripetutamente sottolineato le somiglianze ed affinità tra sionismo e nazismo.
Ciò spiega perché fenomeni «neo-nazisti» oggi affiorano proprio all’interno del rabbinato ultraortodosso e della destra politica israeliana.
Non solo questo fu il caso della corrente «fascista» del movimento sionista, rappresentata da Jabotinsky e dai suoi seguaci dell’Irgun e della Banda Stern responsabili dei massacri delle popolazioni arabe nel 1948, iniziati ben prima, come dimostrato dallo storico israeliano Ilan Pappé, della guerra tra il neonato Stato israeliano ed i Paesi arabi confinanti, ma è oggi anche il caso di Moshe Feiglin ampiamente trattato da Maurizio Blondet (4).

Affermazioni come «Hitler è stato un genio militare impareggiabile. Il nazismo ha trasformato la Germania da una condizione d’inferiorità ad uno Stato fantastico, in senso fisico e ideologico. Una gioventù rammollita divenne parte, netta e ordinata, della società, e la Germania ebbe un regime esemplare, un sistema giudiziario giusto e un vero ordine pubblico. Hitler amava la buona musica, dipingeva… Non erano (i nazisti) una massa di mascalzoni; semplicemente, i mascalzoni e gli omosessuali, li usavano» ed ancora «Non c’è alcun dubbio che il giudaismo sia in un certo senso razzista. Quando alle Nazioni Unite hanno dichiarato che il sionismo è razzista, non ho trovato motivo di protestare. Esistono distinzioni fra le razze, e una distinzione primordiale… in questo senso il sionismo è razziale», rese appunto da Feiglin, evidenziano senza possibilità di dubbio la comune e segreta radice, ci è consentito dire, in prospettiva cristiana, «luciferina»?, di sionismo e nazismo.
Lo aveva, del resto, ben compreso quel grande biblista che fu Israel Zolli, rabbino capo di Roma durante l’occupazione nazista che, deluso dalla deriva nazional-messianica del giudaismo odierno ma ammirato dalla grande prova di carità di Pio XII e della Chiesa in soccorso degli ebrei perseguitati, riscoprì il vero ed autentico ebraismo, ovvero l’adempimento della Fede di Abramo, in Cristo Gesù e finì, anche a seguito di una esperienza mistica da lui stesso raccontata nella sua autobiografia (5), per abbracciare la fede cristiana.
Ha ragione, infatti, l'ambasciatore Sergio Romano quando recentemente, nel recensire il libro di un onesto intellettuale ebreo, ha sottolineato che l’ebraismo, contaminatosi con il sionismo, ha perdendo il suo carattere di fede rivelata e di «luce» tra le genti.
Quel che si deve aggiungere alla constatazione di Sergio Romano è che sia sempre più innegabile il fatto che la Fede di Abramo, ossia il Cristianesimo ante litteram, avulsa da Cristo prima viene amputata della sua Vera Radice Trascendente, quindi manipolata e mistificata ed alla fine degenera nei sogni nazionalistico-messianici dei gruppi di fanatici religiosi fondamentalisti, trasformandosi in vero e proprio «anti-umanesimo».

Ecco perché, sia detto per inciso, non ha del tutto ragione Giovanni Sabatucci (6) quando intervenendo in merito alle polemiche innescate dalla uscita di Fini, crede di poter affermare che il fascismo, inizialmente solo nazionalista, sarebbe stato sin dall’inizio destinato a tralignare nel razzismo in quanto proveniente da una cultura non liberaldemocratica come quella che aveva fatto il Risorgimento.
Non ha ragione perché da un lato le radici giacobine del fascismo, ed il giacobinismo, in particolare nella sua versione repubblicano-mazziniana, fu componente essenziale del processo risorgimentale, sono ormai cosa del tutto nota agli storici ed ampiamente acclarate, e dall’altro lato perché se è vero che il passaggio dal nazionalismo, meglio ancora se esso rimane sul piano del più naturale patriottismo, al razzismo non è affatto inevitabile né scontato, come ritiene, proprio con riguardo alle differenze sostanziali sussistenti tra fascismo e nazismo, Francois Furet, è anche vero, al contrario, che tale passaggio, ma sarebbe meglio parlare di esito nichilista ed irrazionalista del razionalismo politico moderno, ha potuto piuttosto essere facilitato dalla prospettiva immanentista, e dunque, nel caso italiano, pur con tutti i distinguo e non volendo certamente ridurre ad un unicum ideologie comunque diverse come il liberalismo ed il totalitarismo, dalla prospettiva, di eredità massonico-risorgimentale, di un concetto di nazione avulsa dal retaggio spirituale cattolico, ossia senza veri fondamenti metafisici nella Trascendenza ebraico-cristiana, fondamenti piuttosto liberal-democraticamente scimmiottati in termini di umanitarismo.
La Spagna di Franco, dove mai l’antisemitismo razziale attecchì, pur non potendosi dire compiutamente un regime fascista, benché in esso vi fosse un forte elemento fascista ossia quello della falange joseantoniana mai però davvero egemone, sta lì a dimostrare come il nazionalismo patriottico non è affatto destinato, soprattutto se come nel caso franchista rimane informato da un forte retroterra cattolico, a diventare razzismo.
Del resto, prova di quanto abbiamo affermato è lo stesso fascismo italiano che nei suoi più alti gerarchi, come Grandi, Balbo, Bottai (che pure, costrettovi, firmò le leggi razziali e che però confessò di averlo fatto con grave rimorso di coscienza e che da tale rimorso, oltre che dalla sua frequentazione di fine intellettuale di quell’altro fine intellettuale che fu don Giuseppe De Luca, iniziò il suo percorso verso la conversione al Cattolicesimo), subì, osteggiandola, la deriva razzista imposta dalla incontrastabile volontà di un Mussolini fine anni trenta in piene fregole imperiali nonché spinto anche dalla politica, ostile all’Italia, di Francia ed Inghilterra e dall’invidia/ammirazione/sottomissione psicologica al regime hitleriano al mortale abbraccio con quell’Hitler che aveva in precedenza disprezzato ed avrebbe poi continuato sempre a disprezzare, però ora temendolo.

Lo stesso Sabattucci ricorda nel suo intervento il travagliato rapporto della Chiesa con lo Stato italiano seguìto al processo risorgimentale e pur non mancando di evidenziare come la Chiesa si oppose alle derive razziali del fascismo finisce poi per rimarcare il contributo che, a suo parere, l’antigiudaismo teologico tradizionale, che ancora la Chiesa all’epoca coltivava, avrebbe dato all’antisemitismo razziale, se non altro perché certi stereotipi antigiudaici sono stati ripresi dai nazisti e dagli altri antisemiti per giustificare di fronte alle popolazioni cattoliche le proprie posizioni con pretesti di tipo teologico (alcuni cattolici, di origini integraliste, ingannati dalle apparenze della sua novità non capirono subito l’incompatibilità di fondo tra fede cristiana e fenomeno nazista e caddero inizialmente nella tentazione ma altri, molti altri, la maggior parte, proprio seguendo le direttive papali, diffidarono e poi osteggiarono il nazismo, più o meno apertamente, prodigandosi nella protezione e nel soccorso agli ebrei perseguitati).
Pur non facendo l’errore di confondere tout court antigiudaismo ed antisemitismo, Sabattucci, e con lui molti altri «detrattori» di Santa Romana Chiesa, però finisce per tacere dell’impressione che tra il XIX ed il XX secolo faceva sull’opinione pubblica, e dunque anche sui cattolici e sui vertici stessi della Chiesa, il fatto, oggettivo ed innegabile, della egemonica presenza di ebrei sia nella finanza che in tutti i movimenti anticattolici, fossero essi la massoneria, il cui retaggio «cabalista» era ed è ufficialmente rivendicato, o il comunismo, non solo per via delle origini ebraiche, e nel suo caso anche protestanti, di Karl Marx e di molti capi comunisti, da Trosky a Béla Kun, ma anche perché il marxismo è nient’altro che lo stesso messianismo spurio del giudaismo post-biblico tradotto in filosofia dialettico-materialista della storia, oppure ancora il liberalismo propugnatore dell’indifferentismo religioso, oggi diremmo del relativismo, che le gerarchie ecclesiastiche temevano avrebbe finito, ed alla riprova dei fatti oggi possiamo dire che non era timore infondato, per sedurre le masse e secolarizzare la società a quel tempo ancora cristiana.
Non vuole essere una accusa ricordare che la presenza ebraica era rilevantissima in tutti questi movimenti, che poi potevano anche contare forti appoggi sia negli Stati mano a mano che essi, diventando liberali, si scristianizzavano, sia negli ambienti della finanza internazionale, da sempre ben frequentata dai figli di Israele per via della loro innegabile, e spesso «onesta», abilità finanziaria.

Era semplicemente successo che, conseguita con la Rivoluzione Francese l’emancipazione civile, molti ebrei, anche a dispetto del rabbinato che temeva così di perdere il proprio controllo su di essi fino a quel momento tranquillamente ed efficacemente esercitato proprio grazie all’istituzione dei ghetti, si erano entusiasticamente lasciati integrare nelle società nazionali e liberali allora nascenti apportandovi però tutto il loro messianismo intramondano, magari, come nel caso degli ebrei che aderirono ed egemonizzarono il comunismo, in forma non più religiosa ma politica.
Un messianismo, come si è detto, tutto teso alla realizzazione dell’utopia gnostica (il cabalismo di cui molti ebrei emancipati si erano nutriti altro non è che la forma ebraica della gnosi spuria) del «mondo nuovo» inteso come realizzazione terrena ed intrastorica del regno di Dio, dell’era messianica promessa dai profeti.
Anche le attività finanziarie nascondevano questo sogno di un mondo pacificato dal benessere globale e trasformato in una sorta di paradiso in terra, in un paese di Bengodi, nell’Eldorado dell’abbondanza planetaria.
Si badi che in fondo questo sogno, benché non più animato dal messianismo mondano di radice ebraico post-biblica, o perlomeno non più soltanto da esso perché esso ha conquistato anche le élite multinazionali «gentili», è ancor oggi presente nella cultura dalla quale promanano le organizzazioni transnazionali che hanno governato in questi ultimi trenta anni il processo di finanziarizzazione dell’economia, ossia la globalizzazione, e che ci hanno portato ai catastrofici esiti di depressione planetaria odierni (attenzione: non stiamo dicendo che la colpa di tali esiti sia di questo o quel popolo, neanche di quello ebraico, ma soltanto che l’ebbrezza prometeica che un certo tipo di ambigua spiritualità coltiva porta inevitabilmente a tali disastri).

Vittorio Messori in proposito, in un articolo che è necessario riportare con la dovuta ampiezza, ha scritto:

«… davanti al nazismo ci fu, da parte della Chiesa cattolica, … a livello ufficiale, condanna severa dell’antisemitismo (parola per indicare un’ideologia anticristiana, non a caso sconosciuta al vocabolario sino al XIX secolo), ci fu un deciso rifiuto del razzismo in senso biologico, ci fu l’orrore per ogni violenza e ingiustizia. Se, dunque, la condanna per Hitler fu senz’appello, ci fu invece comprensione clericale per Mussolini e le sue leggi che, più che come razziali, furono presentate dai fascisti come discriminatorie, come misura di ‘legittima difesa’. Il motto ‘non perseguitare ma separare’ fu a tal punto sostenuto, per decenni, dall’ufficiosa ‘Civiltà Cattolica’ che, quando nel 1938 quelle leggi furono promulgate, sui giornali del Regime fu tutto un fiorire di lodi per ‘la preveggenza e la fermezza’ dei gesuiti e, con loro, della Gerarchia. E’ un fatto oggettivo che la comunità cattolica si mobilitò - checché ne dicano i coriacei diffamatori - per salvare la vita agli ebrei quando furono minacciati di deportazione e, dunque, di morte, da parte dei tedeschi. Ma non protestò fino a quando ebbero vigore le leggi italiane di discriminazione che - escluso, non lo si ripeterà mai abbastanza, ogni sospetto di razzismo e di violenza - almeno in parte rispondevano alle sue attese… (è necessario) capire le ragioni della prospettiva assunta da quei nostri predecessori nella fede: prima di scandalizzarsi, occorre esaminare in che modo giudicassero e decidessero, secondo esperienza e prudenza. (Sono utili allo scopo… tre articoli sulla ‘questione giudaica’ pubblicati nel 1890 dal padre Raffaele Ballerini (nonché)… le raccolte della Civiltà Cattolica dopo i provvedimenti fascisti del 1938… Innanzitutto, il padre Ballerini constata che ‘il giudaismo da secoli ha voltato le spalle alle legge mosaica, surrogandovi il Talmud, quinta essenza di quel fariseismo che in tante guise venne fulminato dalla riprovazione di Gesù il Cristo’. In effetti questa è una questione reale: anche oggi, sarebbe bene far chiarezza, a vantaggio di quel dialogo ecumenico dove spesso i cattolici si confrontano con un interlocutore che è diverso da quello che immaginano. Nella catastrofe del 70, con la distruzione del Tempio e la diaspora dei sopravvissuti, scomparvero praticamente tutti i gruppi e le sette del giudaismo.
Il quale, da allora, fu contrassegnato quasi solo dal fariseismo. Furono i rabbini di quella corrente a creare i due smisurati, complessi, labirintici commenti, discussioni, raccolte di episodi e di aneddoti che formano i due Talmud, quello di Gerusalemme e quello di Babilonia. Comunque, quando il padre Ballerini scriveva (e, in parte, ancora oggi) il mondo israelitico era composto per una parte da ebrei ormai secolarizzati quanto a credenze religiose, anche se spesso legati alle loro radici da una fedeltà alle antiche tradizioni, vissute in modo ‘laico’. Molti tra costoro facevano parte della massoneria o, se non partecipi delle Logge, ne condividevano la prospettiva di filantropia laica e, soprattutto nei Paesi latini, di militante anticattolicesimo. Quanto alla parte dell’ebraismo che aveva conservato una prospettiva religiosa: per molti, se non per la maggioranza, la Torah, la Legge e i Profeti, erano in secondo piano rispetto al Talmud. Per cui il loro, piuttosto che ebraismo biblico, era piuttosto rabbinismo talmudico. Non si dimentichi che alcuni Maestri erano giunti a dire che la Scrittura era ‘acqua’ mentre il Talmud era ‘vino’. E, dunque, era superiore. Ma era proprio questa situazione che preoccupava i cattolici. In effetti, il Talmud ha, per un non ebreo, aspetti inquietanti, affermando la superiorità di Israele su ogni altro popolo e annunciando - per un futuro indefinito ma certo - il trionfo mondiale dei figli circoncisi di Abramo, cui tutti gli altri finiranno per versare tributo e prestare omaggio. In quelle due enormi raccolte (che, a quanto ci risulta, non sono mai state tradotte, almeno interamente, in una lingua occidentale: e anche questo ha alimentato molti sospetti, come se ci fossero lì cose da nascondere ai ‘gentili’) ci sono anche espressioni molto dure contro Gesù, l’impostore, il falso messia, e contro i suoi seguaci, i ‘galilei’. (…) Il padre Ballerini… riporta… una serie impressionante di citazioni talmudiche, secondo le quali comportamenti immorali non solo sono permessi ma sono meritori se danneggiano i popoli, soprattutto cristiani, tra i quali gli ebrei sono ospiti. E’ vero, ad esempio, che mentre l’usura è vietata tra israeliti, non solo è permessa ma è raccomandata se è praticata a spese dei ‘gentili’. Ed è vero anche che la prospettiva talmudica molto insiste sulla pretesa ebraica di costituire una razza superiore, eletta, destinata a sottomettere le altre, a utilizzarle, se necessario a umiliarle. Da qui, la paura, se non l’angoscia, cristiana di essere minacciati da una ‘quinta colonna’ di nemici che, seppure in minoranza, agivano con lucidità implacabile e con arti spesso ingannevoli se non truffaldine per diventare padroni. Da qui, per dirla con la ‘Civiltà Cattolica’, la necessità di distinguere tra ‘tolleranza’ (esplicitamente raccomandata anche dai cattolici e, in sostanza da loro praticata - seppur tra alti e bassi - nei secoli) e ‘stato civile’, cioè concessione della cittadinanza piena che, a partire dalla Rivoluzione Francese e poi con il liberalismo ottocentesco, aveva fatto degli ebrei cittadini alla pari di ogni altro. Ma in realtà, si osservava, non è così, non può essere così perché proprio gli ebrei non vogliono essere alla pari degli altri. ‘Non sono una setta ma un popolo, disperso ma non disciolto. Sono una nazione senza terra e senza organizzazione politica propria che, tra le altre nazioni, non cerca una patria ma un rifugio, sfruttando e cercando di spogliare (in attesa di opprimere) i popoli che le concedono ospitale soggiorno. E questo sfruttamento, questa ricerca di potere economico, culturale, politico a spese dei non circoncisi sono tanto più pericolosi in quanto sono considerati un cardine della loro morale, sono raccomandati dal talmudismo che seguono’. Questa era la diagnosi dei non ebrei. Ad appoggio e conferma di simili timori, tutta una serie di pubblicazioni, di giornali, di leghe, di interventi parlamentari - in Europa come nelle Americhe - portava dati e cifre che colpivano l’opinione pubblica e la rendevano inquieta. Era un fatto, ad esempio che nell’Impero Austro-Ungarico, dov’erano particolarmente numerosi (un milione e mezzo, sui 40 milioni di abitanti della Duplice Monarchia) i senatori ebrei, eletti per censo, rappresentavano oltre un terzo dell’assemblea, in grado di dominarla grazie alla loro compattezza ‘di stirpe’. Una percentuale sorprendente; ma ancor più lo era quella della Francia dove, verso le fine dell’Ottocento, gli ebrei erano ancora pochi, circa 80.000, ed erano quasi tutti di immigrazione recente, provenendo dalla Germania, dalla Russia, dalla Polonia. I re di Francia, in effetti, più volte li avevano banditi, a differenza del Papa che, ad Avignone, non li aveva mai cacciati. Ma l’immigrazione cresceva di giorno in giorno e avrebbe portato presto gli israeliti a raggiungere, in Francia, il mezzo milione. Comunque, quando ancora erano 80.000, tra senatori e deputati superavano i 20. Da qui il commento della ‘Civiltà Cattolica’ ‘Se i cristiani vi fossero rappresentati con simile percentuale, il Parlamento francese dovrebbe contare non meno di 40.000 membri. L’Italia, che conta 30 milioni di abitanti, invece di mezzo ebreo a rappresentare, in proporzione, i nostri 50.000 giudei ne conta al Parlamento oltre una dozzina e una regione come il Veneto è rappresentata da deputati e senatori tutti israeliti, tranne uno’. Era in corso poi la scalata per il controllo e l’indirizzo dell’alta cultura, attraverso le cattedre universitarie. Un dato sorprendente è che nell’Italia del 1885, sullo scarno complesso della popolazione universitaria, ben un quarto degli iscritti agli atenei era costituito da figli di ebrei. Ma al di là della scalata politica, in grado di condizionare l’attività dei governi, preoccupava ed indignava la ricchezza, ogni giorno crescente. Si portavano, anche qui, molte cifre: metà dei banchieri di Parigi, piazza finanziaria allora decisiva per l’economia europea, era ebraica e ancor più avveniva a Londra, ad Amsterdam, a New York. Anche la proprietà immobiliare vedeva una preminenza che in alcuni Paesi diveniva schiacciante: un quarto del territorio ungherese e addirittura l’ottanta per cento di quello della Galizia apparteneva ad israeliti. Cifre di questo tipo erano quasi infinite ed erano motivo non solo di paura ma anche di sdegno in quanto sia l’elite che il popolo erano convinti che tanta ricchezza, ogni giorno crescente, non fosse dovuta ad una capacità  ‘pulita’ ma all’abilità di chi era maestro in truffe, in raggiri e, soprattutto, in usura che strangolava i cristiani. I quali non dimenticavano che, appena la Rivoluzione aveva permesso loro di muoversi con libertà, gli ebrei avevano messo insieme di colpo grandi ricchezze comprando a prezzo spesso vile i beni sequestrati alla Chiesa. A proposito dei quali il padre Ballerini faceva un confronto. Ricordava, cioè, che quando, a partire dal 1789, quei beni furono ‘nazionalizzati’ senza alcun indennizzo e venduti, il loro valore fu stimato in quattro miliardi di franchi. Poiché i preti e i religiosi erano allora, in Francia, 130.000, a ciascuno di quegli ecclesiastici toccava un capitale di 30.000 franchi, cioè una rendita annuale di 1.500 franchi. Rendita modesta, soprattutto se si teneva conto che su quei beni non vivevano soltanto i religiosi ma anche una gran folla di laici e che la Chiesa con essi faceva grandi elemosine, manteneva una serie imponente di opere sociali, dalle scuole agli ospedali, aveva costruito, costruiva e curava la maggior parte del patrimonio artistico della Nazione. Eppure, quella ricchezza fu giudicata inaccettabile, scandalosa e fu venduta ai migliori offerenti: tra i quali, appunto, molti israeliti. Ebbene, cent’anni dopo la Grande Révolution - seguiamo sempre la ‘Civiltà Cattolica’ - lo Stato stesso, repubblicano e filosemita, calcolava che la sola famiglia dei banchieri Rotschild possedesse 4 miliardi, cioè l’equivalente di tutta la ricchezza della Chiesa dell’Ancien Régime e che agli 80.000 ebrei, in maggioranza di origine straniera, facessero capo ben 90 miliardi, non certo frutto di libere elemosine bensì accumulati (l’opinione pubblica ne era sicura) con mezzi disonesti, come sembravano dimostrare anche gli scandali finanziari, tra cui quello del canale di Panama - in Italia, quello della Banca Romana e della speculazione edilizia a Roma - che avevano rovinato i risparmiatori. Va detto che i non pochi ebrei passati al cristianesimo e che spesso, nel cattolicesimo, erano divenuti sacerdoti assai attivi e stimati (i fratelli Ratisbonne e i fratelli Lémann in Francia, Edgardo Mortara in Italia, e tanti altri) confermavano ciò di cui i battezzati erano convinti. Confermavano, cioè, che - approfittando della eguaglianza concessa dal liberalismo e poggiando sulla solidarietà che li univa in tutto il mondo - i loro ex-correligionari erano protesi alla conquista del mondo ed erano animati da un desiderio di rivalsa contro il cristianesimo. Confermavano, poi, che c’erano stretti legami tra massoneria e comunità israelitiche: queste, anzi, non fornivano solo la ‘truppa’ ma, soprattutto, le menti direttive, spesso celate e in ogni caso potentissime, del movimento di quei Liberi Muratori che erano allora impegnati in una lotta mortale contro la Chiesa cattolica. Ernesto Nathan (ebreo inglese e, secondo la voce comune, figlio naturale di Mazzini) era in Italia il Gran Maestro della Massoneria e quando, all’inizio del ventesimo secolo, fu per sei anni sindaco di Roma fece davvero una politica provocatoria nei confronti dei cattolici, confermandoli nel legame strettissimo tra Loggia e Sinagoga. Impressionava, poi, la presenza ebraica in un altro nemico implacabile della fede, il socialismo. Ed è noto come la presenza ebraica sarà rilevante anche nella Nomenklatura che portò Lenin al potere nel 1917. Insomma, è in questo clima che i cattolici rifiutavano per gli israeliti …, la confisca dei beni o l’espulsione ma chiedevano - parole testuali di padre Ballerini - di ‘accordare il soggiorno degli ebrei col diritto dei cristiani, regolandolo con leggi tali che al tempo stesso impediscano agli ebrei di offendere il bene dei cristiani ed ai cristiani di offendere quello degli ebrei’. E ricordavano che ‘le leggi di separazione di un tempo erano non meno a difesa dei giudei che a tutela dei cristiani, impedendo ogni mutua offesa o violazione di diritto da una parte e dall’altra’. Non, dunque, cittadini a pieno titolo bensì ospiti verso i quali esercitare con scrupolo la carità e la giustizia cristiane (su questo la ‘Civiltà Cattolica’ insiste a ogni passo) ma al contempo il realismo, dunque la prudenza, di chi è consapevole che quegli ospiti vorrebbero, e potrebbero, trasformarsi in padroni
(…)» (7).

Il giudizio degli storici

Fatte queste necessarie premesse, torniamo ad esaminare un po’ più da vicino l’infondata faziosità degli enunciati storici di Gianfranco Fini, il quale non ha saputo o voluto distinguere tra la ferma opposizione a quanto di razzista, in senso biologico e materialista, poteva esserci nella legislazione italiana del 1938 e la prudente valutazione positiva che, come ricordava Messori, il mondo cattolico dell’epoca nutriva per quanto di meramente «separatorio», purché non violento né omicida, vi era in essa.
Il professor Francesco Malgeri, docente di Storia Contemporanea alla facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma - ha apostrofato l’ignoranza di Gianfranco Fini con il tatto che giustamente deve avere un accademico parlando, a proposito della sua esternazione, di «affermazione eccessiva».
«Le reazioni ci furono e furono immediate, - ha detto Malgeri - basti pensare all’articolo sull’Osservatore Romano nel quale si denunciava un provvedimento che innanzitutto veniva a colpire il Concordato. Si parla in questo articolo di vulnus al Concordato. E inoltre, tutta un’altra serie di interventi e di prese di posizione che certamente non condividevano
il provvedimento che era stato adottato dal governo fascista’. Dopodichè Malgeri ha aggiunto che negli ultimi tempi ‘si è particolarmente accentuata questa forma di giudizio, che non tiene conto poi della realtà storica. Penso a tutta la polemica che è sorta anche recentemente sulla figura di Pio XII di fronte allo sterminio degli ebrei. Forse bisognerebbe interrogare gli autori di queste polemiche per cogliere il senso e il significato dei loro atteggiamenti
» (8).
Se però il professor Malgeri si desse la pena di indagare un poco sull’atavica inquietudine di certi settori dell’ebraismo post-biblico, tutta tesa ha dimostrare che non il Nazareno è il Messia ma il popolo ebreo inteso come «messia collettivo», forse potrebbe trovare risposta alla sua domanda.
Un altro storico, Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica, ha replicato a Fini a proposito delle leggi razziali: «La Chiesa le condannò fermamente. Le dimensioni della tragedia seguita alla promulgazione delle leggi razziali costituiscono ancora una ferita aperta di fronte alla coscienza di tutti e continuano a porre l’interrogativo se si sia fatto abbastanza per contrastarle, ma non vedo ragione alcuna per muovere accuse alla Chiesa, che anzi condannò apertamente e con assoluta fermezza la legislazione antiebraica» (9).
E Padre Giovanni Sale, storico de «La Civiltà Cattolica», ha definito quelle di Fini: «Parole sconcertanti», ed ha aggiunto che: «evidentemente il presidente della camera non conosce una pagina di storia nazionale che vede contrapposti Mussolini e Pio XI o forse sono frutto di una ‘svista’, di un cercare un correo a delle responsabilità che il presidente Fini vuole in parte coprire che fanno parte della sua storia, anche se non di quella recente» (10).
Tralasciamo, perché ci porterebbero lontano, alcune annotazioni che bisognerebbe fare a margine del, peraltro, giusto intervento di padre Sale che, ci sembra, tende un po’ troppo a dimenticare che fino a che non vi fu lo sbandamento filo-nazista di Mussolini i rapporto tra Chiesa e Stato non erano poi così messi male, anzi nella Chiesa c’era chi sperava in un battesimo del regime, e soprattutto che, come abbiamo già detto, fascismo e nazismo non sono omologabili sicché, che lo vogliano o meno la comunità ebraica italiana e gli storici che ne assecondano i desiderata, le leggi razziali italiane, che comunque a differenza di quelle naziste si limitavano soltanto a privare dei diritti civili gli israeliti senza però ammetterne la persecuzione culturale o razziale, furono un corpo estraneo nell’ordinamento giuridico di un regime certamente autoritario che aveva tuttavia conservato la struttura fondamentale dello Stato di diritto benché ne aveva con sorprendente spirito modernizzatore cambiato la struttura socio-economica avviando la nazione verso traguardi di maggior partecipazione popolare e maggior giustizia sociale.

Certamente la Chiesa non ha mai sposato, di per sé, la causa del regime fascista né mai avrebbe potuto farlo perché Essa vola, come si è detto, sulle ali dell’Eterno e quando deve trattare con Stati e regimi lo fa sempre, lo ha sempre fatto, con quel distacco che le deriva dal sapersi «nel mondo ma non del mondo».
Tuttavia come ricordato, appunto, da Malgeri la rottura tra Chiesa e regime fascista avvenne proprio a causa della deriva razzista intrapresa da quest’ultimo per sciagurata emulazione, e senso di malcelata inferiorità e persino di paura per la potenza economico-militare tedesca, del regime hitleriano.
In realtà Pio XI insistette pesantemente perchè le leggi razziali non passassero.
All’epoca solo l’Osservatore Romano denunciò la cosa.
In seguito conventi e canoniche furono porto di rifugio per gli ebrei.
Se questo, come dicono gli infingardi «eroi del poi» alla Gianfranco Fini, non fu sufficiente bisognerebbe chiederlo, se sono ancora su questa terra, a quegli ebrei che ebbero salva la vita grazie al soccorso loro dato gratuitamente da Santa Romana Chiesa.
I detrattori della Chiesa di solito affermano che non esiste prova scritta che l’ordine di aprire i conventi agli ebrei perseguitati sia venuto da Roma, dal Papa.
Questa tesi è stata ripetuta, proprio nel giorno dell’esternazione di Fini, dal gongolante Gattegna, intervistato dai TG, con la chiara intenzione di affermare che l’opera di soccorso dei tanti cattolici di quegli anni in favore degli ebrei fu iniziativa dei singoli e dei gruppi senza alcuna direttiva o sollecitazione da parte del Papa e della Chiesa (con il sottinteso, non detto ma palpabile nelle sue parole, che questo starebbe a provare la mancanza di profeticità della Chiesa  e, pertanto, la sua origine non divina).

A parte il fatto che esistono testimonianze scritte di prelati che giurano di aver sentito dare tale ordine direttamente da Pio XII e persino testimonianze di altri prelati all’epoca in servizio nelle diocesi italiane che giurano che dopo il 25 luglio 1943 dalla Segreteria di Stato Vaticana, e dunque con il beneplacito pontificio, arrivò un dispaccio contenente lapalissiane istruzione affinché i vescovi si adoperassero nell’opera di soccorso agli ebrei in tutti i modi possibili, compresa l’apertura ad essi di edifici ecclesiastici e conventi, quei detrattori di Santa Romana Chiesa sono poi gli stessi che scandalizzati gridano al  «negazionismo» quando qualcuno fa loro notare che, del resto, non esiste nessun documento scritto dal quale risulta che Hitler abbia dato l’ordine dell’internamento degli ebrei nei campi e che tuttavia nessuno può seriamente dubitare che egli non ne fosse almeno a conoscenza.
Sicché, analogamente, si può plausibilmente negare che Pio XII non abbia dato l’ordine di soccorso in favore degli ebrei quando tutta la Chiesa europea, e persino quella della sua diocesi di Roma, si era unitariamente messa all’opera in quel senso?
Ora, però mentre la Chiesa denunciava apertamente il neopaganesimo nazista, e poi operò concretamente in soccorso degli ebrei, non risulta che, all’epoca delle leggi razziali, in Senato si unisse nella denuncia un Benedetto Croce, che tra l’altro inveterato liberale anticlericale mai avrebbe fatto qualcosa che prima di lui faceva l’odiata Chiesa.
Silenzio totale, mentre la Chiesa denunciava apertamente, anche da parte dei vari Enrico De Nicola, nel dopoguerra ricompensato con la presidenza della repubblica, e degli ex direttori antifascisti di grandi giornali come Albertini, Frassati e Bergamini.
Silenzio anche dal generale Badoglio e da quell’altro nume del liberalismo nostrano che fu Luigi Einaudi.
Fini, così solerte nel giudicare la Chiesa, nulla ha detto a proposito di tutti costoro, trovando, non stranamente la solidarietà immediata di Veltroni, un altro beneficiario politico dei vari Gattegna, Pacifici e Di Segni: «Quella di Fini è verità palmare» (11).

L’intervento ad adiuvadum di Veltroni è molto significativo perché costituisce la riprova dell’esistenza di una lobby ebraica anche in Italia, benché il coro ufficiale è tutto schierato nel negarlo.
Se, tuttavia, Veltroni e Fini, sinistra ex comunista e destra ex fascista, convergono oggi sulle stesse posizioni di falsificazione della storia per chiari scopi di legittimazione, senza la quale le loro carriere politiche sarebbero rovinate o perlomeno incontrerebbero non indifferenti ostacoli, può seriamente dirsi che chi tale legittimazione può dare, ed ai quali leader politici nazionali di cotanto livello si rivolgono, non eserciti un forte peso, anche mediatico, sulla pubblica opinione e conseguentemente sulle istituzioni?

Per tornare  alle repliche degli storici a Fini

Ancora Giovagnoli ha osservato che: «Il segno di dissenso da parte della Chiesa fu molto forte. Pio XI fu volutamente aspro accusando gli italiani di seguire i tedeschi su una strada sbagliata» (12).
Non solo Pio XI ma anche il cardinale di Milano, il benedettino Ildefonso Schuster, che pure, come la maggior parte dei cattolici del tempo, era stato «simpatizzante» della politica concordataria e di quella sociale corporativista del regime, che sembrava riecheggiare le soluzioni della scuola cattolico-sociale e del Magistero Sociale Cattolico, denunciò la deriva razzista con una dura omelia contro le leggi razziali.
E lo fece su richiesta dello stesso Pio XI.
Già prima del 1938, Pio XI il 14 marzo 1937 aveva pubblicato l’enciclica «Mit brennender Sorge», elaborata dall’allora cardinal Eugenio Pacelli e scritta direttamente in tedesco affinché fosse letta dai pulpiti di tutte le chiese germaniche e in esse distribuita ai fedeli come fu effettivamente fatto durante la prima messa domenicale successiva alla sua promulgazione, nella quale si condannava senza mezzi termini «il nazionalismo esasperato e il culto della razza, nonché le aberrazioni del nazismo e le dottrine anticristiane da esso sostenute» nonché si condannavano, con chiaro riferimento al «Mito del XX secolo» di Alfred Rosenberg, libro culto del regime nazista scritto da un gerarca nazista con lo - in vero neanche tanto - strano cognome di origine ebraica, le «rivelazioni arbitrarie che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza».
Nella stessa enciclica in questione, Pio XI finiva per minacciare l’ira divina contro «colui» che predicava o permetteva che fossero predicate tali aberranti dottrine.
Sempre Pio XI durante un’udienza concessa agli operatori belgi delle radio cattoliche, nel settembre 1938, affermò che «l’antisemitismo è inammissibile. Noi - disse - siamo tutti spiritualmente semiti».
Qualche mese prima, il 29 luglio, a Castelgandolfo, rivolgendosi agli alunni del Collegio romano di Propaganda Fide, aveva dichiarato in aperta polemica con il Manifesto della razza che «il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali. La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa».

Pio XI fece ogni tentativo possibile, nell’ambito delle proprie prerogative, per bloccare innanzitutto l’emanazione della legge e, non essendo riuscito ad ottenere questo, tentò almeno di ridurre al minimo gli effetti più nocivi e discriminatori nei confronti degli ebrei.
Non riuscì ad ottenere almeno l’attenuazione delle disposizioni più gravi della legislazione razziale ma è innegabile che egli fu l’unico all’epoca ad opporsi con le sue sole forze alle leggi razziali.
Su sua indicazione «La Civiltà Cattolica» contrastò con forza la teoria neopagana e anticristiana dell’antisemitismo razzista, pur riaffermando essa la tradizionale circospezione cattolica verso gli ebrei motivata come ci ha ben ricordato Vittorio Messori nel suo articolo da noi sopra ripreso.
Essa comunque fu l’unica rivista italiana che si oppose, già nell’agosto 1938, a quanto di razzista poteva esserci nella legislazione razziale italiana.
Il suo primo articolo antirazzista uscì, il 4 agosto 1938, sfuggendo alle maglie della censura politica.
L’articolo in questione condannava la teoria che riduceva la nazione alla razza, «difesa - scriveva il gesuita padre Antonio Messineo - con una ostinatezza e un fanatismo ideologico degno di migliore causa e con una povertà di argomenti pseudo-storici e pseudo-scientifici, che fanno poco onore alla scienza, da tutti gli scrittori che traggono ispirazione dal mito razzista della nuova Germania».
Tali teorie erano definite dalla rivista dei gesuiti «oltre che antiscientifiche, mostruosamente illogiche» (13).

Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’università del Molise, ha ricordato a Fini che «Pierre Laval, primo ministro di Vichy, espresse il suo timore per un intervento del Vaticano sulle leggi razziali di Vichy come lo stesso Vaticano aveva fatto per le leggi razziali italiane. E difatti fu poi il nunzio Valeri a protestare presso Pétain. Ma per restare al ‘38  se uno prende l’Osservatore Romano del 2 luglio di quell’anno, trova un discorso in cui Pio XI definisce ‘detestabile’ il nazionalismo esasperato e il cosiddetto separatismo, cioè il razzismo. L’ambasciatore americano in Italia, William Phillips, nota e comunica in USA come le leggi razziali stiano compromettendo il rapporto fra i cattolici e il fascismo. E il 5 novembre del ‘38 il Governo americano, nella figura del segretario di Stato, fa notare al Governo italiano che il Vaticano ha preso una netta posizione pubblica contro le leggi razziali. L’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, con un telegramma del 12 novembre 1938, fa poi sapere a Mussolini, per mezzo di Ciano, che è prevedibile una nota di protesta del Papa in seguito al decreto legge per la difesa della razza. La protesta arriva due giorni dopo con una nota della segreteria di Stato vaticana, in cui si protesta appunto per il decreto. Ma non è finita. Sempre l’ambasciatore italiano presso la Santa Sede dice che è prevedibile che anche nei colloqui e nelle udienze concesse dal Santo Padre questo atteggiamento di protesta vibrata non cesserà. Cosa puntualmente confermata dai verbali che abbiamo delle udienze. Ed è lo stesso Pacelli a registrare l’ostilità del Papa nei confronti di Mussolini. Papa che, non dimentichiamolo, intervenne anche per mitigare le leggi razziali tedesche e cercò di difendere le vittime, per esempio quando venne affidato al prefetto della Biblioteca apostolica vaticana, alla fine del ‘38, l’incarico di sondare le disponibilità Oltre Atlantico e organizzare l’espatrio di intellettuali ebrei in America. L’insigne geografo ebreo Roberto Almagià fu ospitato direttamente in Vaticano» (14).

Lo storico Andrea Riccardi dal canto suo ha lamentato l’ambiguità dell’atteggiamento di fondo sposato da Fini: «Qui si fa la storia con il senno di poi. Bisogna valutare le condizioni, le possibilità (della) ... Chiesa del 1938, del 1943… Inoltre, mi sembra che stiamo continuamente chiamando sul banco del correo la Chiesa per tutto, anche perché ormai nella crisi di tutte le istituzioni resta l’unica istituzione credibile e dunque vogliamo renderla imputata di tutto» (15).

Ma neanche il fascismo era realmente antisemita

A conforto della realtà non razzista dello stesso regime fascista fino al 1938, e dunque del carattere strumentale e politico, dunque non convintamente ossia non ideologicamente razzista  dell’«antisemitismo» fascista successivo a quell’anno, è stato di recente pubblicato, per i tipi de Il Mulino, un libro della storica Marie-Anne Matard-Bonucci per la quale, appunto, la legislazione antisemita fascista sottese soltanto un «progetto di rivoluzione antropologica volto a fare degli italiani un popolo di conquistatori, dominatori, guerrieri» (16).
Secondo questa storica «Fino alla metà degli anni Trenta, il regime non fu antisemita e criticò anzi abbastanza fortemente l’antisemitismo nazista. Le leggi razziali rappresentarono dunque, a mio parere, una rottura nella storia dell’Italia contemporanea e in particolare del regime fascista. Nel 1937, data di questa rottura, il regime conosceva un certo affievolimento del consenso e una forma di pausa nella dinamica totalitaria, dopo gli entusiasmi suscitati dall’offensiva in Etiopia. Il regime non aveva più autentici antagonisti politici e dunque le leggi antisemite furono pensate come un mezzo per rilanciare la macchina totalitaria».

Diciamo, subito, a parziale correzione di quanto dice la Matard-Bonucci che per il regime fascista non di totalitarismo in senso proprio può parlarsi quanto piuttosto di autoritarismo di massa, sicché quanto questa storica osserva circa la dinamica totalitaria deve piuttosto riferirsi più genericamente alle dinamiche di mobilitazione delle masse che erano comuni, pur nella loro essenziale diversità anche politologica, sia ai regimi autoritari moderni, ossia di massa, che ai regimi compiutamente totalitari, che sono però altra cosa.
Benché non ci furono pressioni dirette, dice ancora la Matard-Bonucci, nella deriva razzista del regime italiano: «Il contesto delle relazioni con la Germania era importante, anche se la decisione italiana venne presa in modo autonomo… giocò il fascino esercitato dalla Germania nazista. Del resto, Mussolini leggeva attentamente i rapporti provenienti dalla Germania sulla funzione politica dell’antisemitismo».
La Matard-Bonucci ritiene, giustamente, che, a differenza della Francia e della Germania, non esisteva in Italia nessuna forma di antisemitismo razziale e neanche politico, pur ammettendo che frange minoritarie del mondo cattolico, nazionalista e socialista nutrissero pregiudizi antisemiti.
Qui tuttavia la nostra storica deve essere nuovamente corretta in quanto l’uso troppo disinvolto e senza distinzioni precise del termine «antisemitismo» non dà ragione della effettiva realtà storica neanche nei riguardi di quei gruppi che definisce minoritari.
Infatti abbiamo già osservato che in ambito cattolico non può mai parlarsi di antisemitismo razziale ma solo di antigiudaismo teologico.
Tanto è vero che proprio nel caso, richiamato dalla Matard-Bonucci, del movimento francese nazionalista «Action Francaise», il cui fondatore Charles Maurras, benché alla fine della vita pare si sia sinceramente convertito, si definiva cattolico per appartenenza nazionale ma ateo e positivista per convinzione e guardava alla Chiesa come elemento d’ordine e di garanzia della gerarchia sociale (insomma una sorta di teocon ante litteram), tra i motivi principali della scomunica comminata da Roma contro l’intero movimento in questione ci fu l’adesione maurrassiana ad un antisemitismo tendenzialmente razzista di stampo positivista.

Per quanto poi riguarda l’ambito nazionalista italiano e quello socialista, al quale ultimo si abbeverò anche il giovane Mussolini, l’antisemitismo assunse connotati prevalentemente «culturali» o «sociali», per cui l’ebreo era l’appartenente ad un popolo straniero, e come tale ospite, ovvero era il ricco finanziere borghese nemico di classe.
In ogni caso anche in tali ambiti mancava ogni consapevole cognizione di tipo razziale o razzista. Del resto un antisemitismo di matrice sociale ed economica (l’ebreo come ricco speculatore ai danni del popolo povero), mischiato all’antigiudaismo teologico, fu patrimonio anche dei cristiano-sociali austriaci del XIX secolo il cui leader, il borgomastro di Vienna, Karl Lueger, proprio per questo non era nelle simpatie dell’imperatore cattolico Francesco Giuseppe che, dopo le elezioni, ritardò di due anni la ratifica imperiale della sua nomina a sindaco della capitale dell’Impero.
 
Comunque, fatte queste necessarie precisazioni, si può concordare con la Matard-Bonucci quando, a riprova dell’inesistenza in Italia di un antisemitismo cattolico o fascista, afferma che: «Il regime fu costretto quasi a inventare una tradizione, prendendo a prestito elementi presenti in Francia e soprattutto in Germania».
Così come si può concordare con l’affermazione per la quale la comunità ebraica italiana era relativamente ben integrata rispetto alle consorelle europee: «Si trattava - dice la Matard-Bonucci - … di una specificità in Europa. La comunità ebraica italiana era particolarmente ben integrata, come mostra ad esempio l’indicatore dei matrimoni misti, molto più numerosi che negli altri Paesi. Ad attestarlo sono anche gli archivi delle organizzazioni ebraiche».
A tale constatazione è necessario però aggiungere una spiegazione, anche sulla scorta di quanto abbiamo citato nella nota numero 3, che la Matard tace, ossia quella per cui se tale integrazione sussisteva ciò era possibile anche perché per secoli il Papato e la Chiesa avevano protetto gli ebrei italiani nonché quelli espulsi dagli altri regni europei e che puntualmente si rifugiavano proprio nei territori pontifici.
La Matard-Bonucci riconosce d’altronde che per imporre le leggi razziali alla società, il regime dovette superare l’ostacolo della casa reale e soprattutto quello della Chiesa: «Il regime temeva le reazioni di queste due istituzioni. Il re emise qualche protesta di principio, ma accettò le leggi razziali abbastanza rapidamente, come aveva fatto con altre evoluzioni del governo fascista.
Il regime aveva molto più da temere dalle reazioni della Santa Sede. Ciò che sappiamo è che Papa Pio XI era probabilmente più determinato ad opporsi alla svolta antisemita che parte del proprio entourage. Nonostante la malattia, il Papa incaricò il padre gesuita John La Farge di curare una bozza d’enciclica sull’unità del genere umano e di condanna dell’antisemitismo. Dopo la morte di Pio XI, l’enciclica resterà però nei cassetti e non verrà utilizzata
».

Si tratta della cosiddetta «enciclica nascosta» sulla quale si sono fatte dai detrattori infingardi mille illazioni.
Sicché qui è necessaria l’ennesima precisazione.
L’enciclica commissionata da Pio XI non fu mai pubblicata dal successore, Pio XII, perché non parve opportuno al nuovo Pontefice pubblicare in quel momento storico un testo che mentre condannava, sacrosantamente, senza mezzi termini l’antisemitismo razziale, tuttavia, anche con la lodevole intenzione di distinguerlo dal primo, ribadiva le ragioni puramente teologiche del tradizionale antigiudaismo religioso.
Se Pio XII avesse pubblicato, mentre imperversava la persecuzione nazista degli ebrei europei, quel testo ora gli infingardi starebbero ad accusare la Chiesa di aver sostenuto teologicamente il razzismo nazista all’opera.
Comunque Pio XII riprese tutta la prima parte di quel testo, che iniziava con le emblematiche parole «Humani generis unitas» quella nella quale si condannava esplicitamente il razzismo, nella sua prima enciclica, con la quale definì il programma del suo pontificato, la «Summi Pontificatus», per sottolineare dottrinariamente la fede cristiana nell’unità di natura dell’intero genere umano senza esclusioni di nessuno.
Fatta anche questa precisazione, ridiamo la parola alla Matard-Bonucci: «Il Papa emise delle proteste pubbliche, benché davanti a platee relativamente contenute, come ad esempio quando incontrò del settembre 1937 dei pellegrini belgi, affermando: ‘Siamo spiritualmente tutti  semiti’. Affermazioni come queste scatenarono l’ira di Mussolini. Nell’entourage del Papa, ci furono interlocutori che affrontarono col regime la questione delle leggi razziali. Questi interlocutori si limitarono alla questione dei matrimoni misti. Ma ciò non impedirà poi  al regime di emanare lo stesso il loro divieto».

Mussolini «il cattolico»

Interessante poi anche quando la Matard-Bonucci dice circa il tipo di antisemitismo coltivato da Mussolini: «E’… chiaro che il suo antisemitismo non ebbe nulla a che vedere con l’antisemitismo redentore e fanatico di Hitler. Mussolini aderì a un insieme di stereotipi ereditati da una certa cultura nazionalista, ma anche da una certa tradizione antisemita del movimento operaio».
Qui è necessaria una breve digressione, per una questione di naturale giustizia storica, anche sugli effettivi sentimenti nutriti da Mussolini, al di là delle tattiche e delle astuzie impostegli dalla politica e dall’alleanza con la Germania.
Infatti, vi è oggi una tendenza sempre più invadente ad accreditare di intrinseco razzismo non solo il fascismo ma anche il suo fondatore.
Cosa del tutto falsa, come ha ben dimostrato nel suo ottimo articolo su questo stesso sito Filippo Giannini (17).
Il fascismo del resto sin dall’inizio fu pieno di aderenti e militanti di origini ebraiche e che si sentivano perfettamente integrati nella nazione italiana e fieri di esserne cittadini a pieno titolo. Quindi ha ragione Giorgio Pisanò, citato dal Giannini, quando («Noi fascisti e gli ebrei», pagina 19) ha scritto che a partire dal 1939, ossia dallo scoppio della guerra, Mussolini: «… all’insaputa di tutti, … diede inizio a quella grandiosa manovra, tuttora sconosciuta o faziosamente negata anche da molti di coloro che invece ne sono perfettamente a conoscenza, tendente a salvare la vita di quegli ebrei che lo sviluppo degli avvenimenti bellici aveva portato sotto il controllo delle forze armate tedesche».
Quello ricordato da Pisanò è un fatto del tutto noto agli storici: un atteggiamento da parte di Mussolini e della maggior parte dei fascisti che, perdurante persino nel periodo della Repubblica Sociale, provocò non pochi e non teneri scontri tra le autorità tedesche e quelle italiane.
Giannini ci ha anche ricordato i: «… provvedimenti a favore degli ebrei enunciati nel 1930 e perfezionati nel 1931 (che) risultarono tanto graditi alla comunità ebraica italiana che i rabbini innalzarono preghiere di ringraziamento nelle sinagoghe. E se il 95% degli italiani erano per Mussolini, questa percentuale raggiungeva quasi il totale nella comunità ebraica; senza contare i numerosi ministri ebrei chiamati a collaborare con lui al governo».
Ma una volta gettato dalla Francia e dall’Inghilterra Mussolini nelle braccia della Germania era impensabile, come ha scritto Renzo De Felice citato da Giannini, che: «era impensabile che anche l’Italia non avesse le sue leggi razziali».
Sicché, ci ricorda ancora Giannini, come ha scritto Meir Michaelis: «Non si trattava dunque di un problema interno, bensì di un aspetto di politica estera» e come ha aggiunto lo storico ebreo Léon Poliakov, («Il nazismo e lo sterminio degli ebrei», pagine 219-220): «Ovunque penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte agli ebrei (…). Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema ebraico (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei (…)».
Verità confermata dal già citato George Mosse, autorevole docente dell’Università ebraica di  Gerusalemme, che, ricorda sempre Giannini, a pagina 245 della sua opera «Il razzismo in  Europa», scrive: «Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo (…). Come abbiamo già detto, era stato Mussolini stesso a enunciare il principio ‘discriminare non perseguire’. Tuttavia l’esercito italiano si spinse anche più in là, indubbiamente con il tacito consenso di Mussolini (…). Ovunque, nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei in grado di chiedere la nazionalità italiana. Le deportazioni degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi occuparono l’Italia».

Vogliamo aggiungere da parte nostra quanto scrive Israel Zolli, il rabbino capo di Roma che finì per convertirsi a Cristo, nella sua autobiografia a proposito dell’aria che si respirava per gli ebrei nell’Italia fascista anche dopo le leggi del 1938:

«Un giorno venne da me una rappresentanza di povera gente per lagnarsi con me: ‘Da anni abbiamo vissuto, mantenendoci, assieme alla famiglia, con la vendita di cartoline illustrate sui nostri carretti che piazzavamo agli angoli delle vie più frequentate. Ora ci cacciano via perché siamo ebrei’. ‘State tranquilli, cercherò di aiutarvi e pregate il Signore che aiuti me’. All’indomani dopopranzo andai dal gerarca (di mattina era occupato, quale alto funzionario del ministero di Grazia e Giustizia). Mi ricevette con molta cortesia e ci stringemmo la mano senza il saluto fascista. Ebbi l’impressione di avere a che fare con una persona mite e buona, gerarca probabilmente ai sensi di PNF. Questa era la sigla del partito e significava: Partito Nazionale Fascista, sennonché gli eretici interpretavano: per necessità familiari, cioè per poter vivere. ‘Commendatore - gli dissi - sono venuto a proporle la fondazione di una società per azioni’. ‘Si tratta di una cosa redditizia?’ mi domandò, avendo compreso trattarsi di uno scherzo. ‘Le azioni - dissi - sono buone e redditizie, se non in questo mondo, certo però nel mondo dell’al di là’. ‘Sono cattolico credente e la cosa mi interessa. Chi sarebbero i primi azionisti?’. ‘Lei e io’. ‘A cosa mira la nuova società?’. ‘A ridare ai poveri ebrei del ghetto la possibilità di vendere le loro cartoline illustrate’. ‘E’ questione di disciplina di Partito. Non posso far nulla’. ‘Comprendo - dissi - : disciplina è di regola sinonimo di giustizia; ma lei sa troppo bene che in Italia il ministero si chiama: di Grazia e Giustizia. Come in religione, così nella vita sociale la grazia deve precedere la giustizia. Prima trovi con l’aiuto del suo buon cuore il modo di mitigare la cosa, e poi praticheremo la disciplina’. Qualche altra obiezione e poi la conclusione. ‘Dica loro, come consiglio suo, di non stare fermi per delle ore sullo stesso posto. Dopo due orette passino da un posto all’altro. Al resto ci penserò io’. ‘Ho capito - gli dissi fissandolo nei suoi occhi -. Noialtri ebrei, anche in fatto di vendita di cartoline, dobbiamo essere erranti’. Il gerarca mi strinse fortemente la mano e mi accompagnò personalmente, attraverso tutti gli uffici, sino al pianerottolo delle scale. Dopo qualche giorno lo incontrai in strada. Era in compagnia. Questa volta non ci salutammo. PNF …» (18).

Un perfetto «spaccato» del modo nel quale le leggi razziali trovavano mille scuciture in fase di applicazione per il semplice motivo che contrariamente a quel che dice Fini, o gli è stato fatto dire, lo stesso regime nei suoi alti gerarchi non vi credeva affatto per convinzione politica sapendo bene che esse erano una necessità dettata dall’alleanza con la Germania e che quindi bisognava far finta di applicarle, letteralmente inventando una inesistente tradizione culturale razzista italiana.
Si noti poi, perché è fattore altamente rivelante, la dichiarazione di professa cattolicità da parte del gerarca.
Ora, per l’appunto, si rifletta: è possibile che in tutto questo senso di «umanità» dimostrato dagli italiani, compresi i fascisti e lo stesso Mussolini, verso gli ebrei perseguitati dagli «alleati» nazisti il retaggio spirituale e cattolico della nostra cultura non c’entri davvero nulla, come vuole la tesi «italiani cattiva gente», messa in scena da Gianfranco Fini e costruita ad arte dagli storici faziosi ai quali anche la comunità ebraica italiana si richiama ed alla cui elaborazione essa ha partecipato con i propri storici per ovvi motivi di strumentalizzazione a scopi di propaganda ed egemonia storico-culturale sull’opinione pubblica digiuna di cose storiche?

I rapporti di Mussolini con la fede cattolica

Mussolini era figlio di Alessandro, un fabbro anarchico e socialista, e di Rosa Maltoni, una maestra di scuola elementare di profonda fede cattolica.
Se è vero che il giovane Benito, che fu così chiamato dal padre in onore del rivoluzionario messicano Benito Juarez, colui che, favorendo in tal modo gli americani, catturò e fucilò Massimiliano d’Asburgo, già tradito da Napoleone III che lo coinvolse nei suoi loschi affari finanziari di massone regnante, infrangendo il sogno di un impero cattolico che facesse ombra agli Stati Uniti, respirò sin da ragazzo l’aria rivoluzionaria dei circoli anarco-socialisti ai quali il genitore ben presto lo iniziò, è pur vero, d’altro canto, che sin dalla culla fu nutrito dal cattolicesimo orante e pratico della madre.
Un retaggio, quello del cattolicesimo materno, che molti italiani, anche famosi, si sono poi portati dietro nella vita, finendo, magari dietro qualche debacle esistenziale, come successo anche a Mussolini, per riscoprirlo con sincera devozione fino alla conversione aperta.
Sulla conversione del duce rimandiamo al bel libro di don Ennio Innocenti, un teologo e sacerdote romano, un’opera che suscitò persino l’interesse di Renzo De Felice che tuttavia non poté approfondire la questione per via della morte che lo colse prima che terminasse il suo decennale lavoro su «Mussolini e il fascismo» (19).
L’Innocenti ha testimonialmente dimostrato e ricostruito l’iter della graduale conversione di Mussolini al cattolicesimo, prima avvicinato, ai tempi della Conciliazione, per motivi di chiara tattica politica e poi, soprattutto a partire dagli anni seguenti alla morte del fratello Arnaldo e del figlio Bruno, cui seguirono quelli tragici del declino politico, coincidente con l’aggravarsi della situazione militare, sinceramente valutato nella sua essenza di fede fino ad approdare ad una vera e propria conversione sfociata nel ritorno, appunto testimoniato da più di un sacerdote che gli fu vicino negli anni 1943-45, ai sacramenti, ad iniziare dalla confessione.
Pare che un momento molto importante in tale itinerario fu quello della sua prigionia a Ponza, dopo il 25 luglio.
Sembra che lì abbia letto la «Vita di Cristo» dell’abate Ricciotti, un’opera di critica storica, totalmente ortodossa senza essere per questo non scientifica, che è oggi un classico, e che abbia sottolineato con forza i passaggi relativi al tradimento di cui Gesù fu vittima.
Non è una novità che il Dio cristiano sappia usare degli eventi che a viste umane sembrano catastrofici, come per un dittatore la caduta del suo regime, per salvare l’anima dell’uomo aprendola mediante la sofferenza a Lui.
Che Mussolini si sia un po’ alla volta riavvicinato alla fede di sua madre è stato testimoniato anche dal suo attendente, Pietro Carradori, in un altro bel libro, al quale rimandiamo i lettori (20).

Si noti che, nonostante le difficoltà intervenute a causa della deriva razzista del regime, Pio XI ha dimostrato in diverse occasioni uno speciale affetto «paterno» verso Mussolini, quasi ne avesse presentito l’impulso intimo verso la conversione.
Proprio nel periodo nel quale Mussolini, sull’onda del momento di massimo consenso popolare al suo regime, all’indomani della conquista dell’Etiopia e della proclamazione dell’impero, iniziava a dare chiari segni di un incipiente senso di estrema sicurezza politica che tendeva a sfociare, come riconoscono gli storici, ad iniziare da Renzo De Felice, in aperte manifestazioni di auto-idolatria, Pio XI, che era uomo certamente caritatevole ma anche dal «pugno di ferro», gli fece pervenire, tramite Cesare Maria De Vecchi, quadrunviro della Marcia su Roma, ed in quel momento ambasciatore italiano presso la Santa Sede, uomo di profonda fede cattolica, il seguente «profetico» ammonimento, con l’invito del Papa a ficcarselo bene in mente: «Deve dire a mio nome, al signor Mussolini, che quel suo mezzo divinizzarsi a me dispiace e a lui fa male, anzi malissimo. Egli non deve porsi così a mezz’aria fra la terra e il cielo senza più tenere i piedi sulla crosta terrestre. Gli faccia riflettere, a nome mio, che Iddio, Nostro Signore, è uno solo. Egli non potrebbe essere dunque che un idolo, un feticcio, oppure un falso iddio, o, al massimo, un falso profeta. Lo inviti, sempre a nome mio, a riflettere che i popoli, le turbe, prima o poi finiscono per abbattere gl’idoli. Gli dica che se non cambia sistema andrà a finire male. Ecco qual’ è l’ambasciata che domando da Lei. Se la metta bene in mente e mi prometta che la riferirà senza modificare una parola e, naturalmente, senza smussare gli spigoli».
De Vecchi ha poi testimoniato che riferita la cosa a Mussolini, questi gli chiese il suo parere in merito e quando l’ambasciatore rispose che a suo giudizio il Papa aveva ragione, il duce aggiunse: «Va a dire subito al Papa che lo ringrazio».
E tuttavia egli era così preso dal suo momento «magico» che non si accorse della china pericolosa sulla quale si stava mettendo e stava mettendo l’Italia.
Certamente non per sua sola responsabilità: eppure ancora nel 1937-38, e forse anche nel 1939-40, era in tempo per virare rotta.

Le ultime novità della ricerca storica

Gianfranco Fini con le sue esternazioni pseudo-storiche ha offeso innanzitutto proprio la santa memoria di Pio XI che, come si vede, sapeva essere, come deve essere un buon padre e pastore, ad un tempo duro e premuroso.
Lo storico padre Giovanni Sale ha appurato, dopo l’apertura degli archivi vaticani relativi a quegli anni, che Pio XI fu un Papa dal «temperamento volitivo e combattivo» fino al punto di dirsi pronto a vergare di suo pugno una lettera autografa al capo del governo Benito Mussolini per chiedergli personalmente di non porre impedimenti al matrimonio tra cattolici per motivi razziali e a chiedere indirettamente modifiche alle leggi sulla razza, promulgate il 17 novembre 1938 (21).
Il tutto è emerso dalla documentazione inedita relativa alle note dell’allora addetto alla Segreteria di Stato, monsignor Domenico Tardini.
Questi documenti e testi ufficiosi della Santa Sede fanno affiorare il vero stato d’animo di Papa Achille Ratti verso il problema della razza e della questione ebraica.
La documentazione desecretata dell’Archivio Segreto Vaticano ha infatti permesso a padre Sale di seguire quasi giorno per giorno il punto di vista vaticano sulle vicende della promulgazione delle leggi sulla purezza della razza.
A preoccupare il Papa e la Santa Sede fu soprattutto il controverso articolo 7 della legge, che proibiva i matrimoni tra cattolici per motivi razziali.
Un articolo che creava un vero vulnus nel Concordato del 1929.
Le fonti vaticane mostrano quanto questi provvedimenti rattristassero il Papa e come lo tenessero in penosa tensione sino alla fine dei suoi giorni.
Sono emersi da tali documenti i tentativi di Papa Ratti e in particolare dei suoi fiduciari del tempo - monsignor Domenico Tardini e il gesuita Pietro Tacchi Venturi, quest’ultimo di casa a Palazzo Venezia - per trovare uno sbocco diplomatico alle tensioni intervenute per la questione delle leggi razziali tra Vaticano e governo italiano.
«Se Mussolini - si legge in una confidenza di Pio XI a monsignor Tardini - non mostra buona volontà di trovare una via d’uscita, sono disposto a scrivergli una lettera, semplicissima, per dirgli che così facendo, lui spinge gli uomini al peccato e per ricordargli non una parola umana, ma una parola divina: ‘miseros facit populos peccatum’ (libro dei Proverbi 14,34: ‘Il peccato segna il declino dei popoli’)».
Si trattava di un modo di procedere nient’affatto «protocollare», in quanto il Papa indirizzava lettere autografe soltanto a sovrani o capi di Stato e non a semplici capi di governo come era formalmente Mussolini.
Ma il Papa non era preoccupato solo della sorte giuridica dei matrimoni misti.
La sua preoccupazione era molto più ampia ed era già maturata prima della pubblicazione della legislazione razziale.
La proibizione di pubblicare articoli contro il razzismo, decisa dal ministero della Cultura Popolare, scandalizzò Pio XI: «Ma tutto questo è enorme! - si legge ancora in una nota di Tardini del 23 ottobre 1938. - Sono veramente amareggiato come Papa e come italiano».
Ne esce confermato quello che era il vero stato d’animo dell’anziano Papa riguardo ai provvedimenti in generale e la sua preoccupazione di un’alleanza dell’Italia con la Germania di Hitler.
Non a caso nello stesso anno delle leggi razziali, Pio XI si «ritirò» a Castelgandolfo prima della visita di Stato di Hitler a Roma dal 3 al 9 maggio.
In quell’occasione L’Osservatore Romano scrisse che l’aria della Città Eterna «faceva male» al Pontefice.
Nel settembre 1938 Pio XI pronunciò in Vaticano il famoso e memorabile discorso in cui affermò  che «l’antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti».
E se è vero che per motivi di diplomazia l’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica pubblicarono il testo omettendo la parte riguardante gli ebrei, dalla nuova documentazione emerge chiaramente quali sono state le direttive di Pio XI contro la legislazione razziale.

Quella messa all’opera da Pio XI fu una vera e propria fitta ragnatela diplomatica in occasione della deriva razzista del regime fascista.
Una rete della quale facevano parte anche le richieste di colloqui, presentate «a viva voce» e poi in forma scritta, avanzate da padre Tacchi Venturi per far conoscere il vero pensiero del Papa su questo tema al duce che da parte sua si fece sempre più schivo nei confronti del gesuita del Papa con il quale in precedenza era in ottimi rapporti perfino confidenziali.
Pio XI tentò anche la strada della preparazione e della consegna di lettere autografe al re Vittorio Emanuele III e a Mussolini: non ultima la Nota diplomatica di protesta all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede del 13 novembre 1938.
Dalla documentazione ora desecretata è emerso che Pio XI avrebbe voluto la pubblicazione integrale di quella Nota ma che la Curia per ragioni prudenziali, e per non inasprire ulteriormente il conflitto tra governo fascista e Santa Sede, preferì la pubblicazione di un testo meno compromettente.
La nuova documentazione vaticana fa affiorare, a differenza di quanto sostiene una certa storiografia, quella che piace a Gianfranco Fini ed alla comunità ebraica italiana, un Papa per niente rassegnato all’adozione anche in Italia di una legislazione razziale di stampo filo-tedesco.
«Tutto questo rapido succedersi di udienze, di conversazioni e di documenti - si legge in un documento di monsignor Tardini - fu voluto e diretto personalmente dal Santo Padre già tanto malato, con energia veramente giovanile».

Dalle carte di monsignor Domenico Tardini si evince anche la definitiva uscita di scena del gesuita Tacchi Venturi - fino a quel momento vero trait d’union fra regime e Vaticano - e la posizione di maggior prudenza della Curia, nel tentativo di recuperare il precedente buon rapporto con il governo fascista anche come mezzo per una futura revisione della legislazione razziale, secondo quanto sosteneva il nunzio apostolico in Italia, monsignor Borgongini Duca.
Quella contro la teoria del «razzismo» propugnata da Adolf Hitler e da Mussolini imitata maldestramente, ma non per connivenza ideologica che non c’era affatto, fu l’ultima battaglia di un Papa, Pio XI, ormai gravemente ammalato e vicino alla morte, avvenuta il 12 febbraio 1939, ma che fino all’ultimo non cedette mai nella difesa certamente della dottrina di fede cattolica ma anche della giustizia naturale alla quale ripugna ogni forma di razzismo.

Certamente tutto questo per un opportunista come Gianfranco Fini avrà ben poco conto ma per le persone serie, di qualunque posizione politica o religiosa, fa la differenza tra la Verità storica e quelle che, sebbene dette da una carica istituzionale nell’ambito di una cerimonia pubblica, sono e restano soltanto meschine idiozie o, al meno meglio, stolti segni di ignoranza della storia.

Luigi Copertino




1)
Ecco le testuali parole di Fini: «L’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia delle leggi razziali. C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perchè, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica». (…) (Fonte: http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=314813 ,16.12.2008). Per quanto riguarda poi le sue innumerevoli giravolte, a seconda di come cambia il vento e di chi lo può sostenere nella sua ascesa politica, basta qui ricordare, a mo’ di esempio generale, delle sue esternazioni a favore della fecondazione assistita proprio a ridosso del referendum del 2005 per dare il chiaro segnale ai circoli massonici italiani della sua disponibilità a diventare il leader di quella «destra» a suo tempo disegnata dal venerabile Licio Gelli nel suo progetto per il cambiamento dell’Italia. Un progetto che poi è stato ripreso con l’entrata in campo di Berlusconi e lo sdoganamento di Fini.
2)
Onde supportare questa nostra affermazione e dal momento che si parla di affermazioni fatte da Fini in occasione della celebrazione della ricorrenza delle leggi razziali, riportiamo le seguenti notizie di stampa a proposito della legislazione discriminatoria su basi etniche in vigore nell’«unica democrazia del medio oriente»: «Il Parlamento israeliano ha approvato ieri in prima lettura una legge che autorizza la vendita delle terre demaniali solo agli ebrei. Israele in questo modo ferisce una volta di più la democrazia, all’insegna della discriminazione e dell’Apartheid. Il progetto di legge approvato dalla Knesset, sostenuta dalla destra israeliana, da Kadima e dal Likud, vieta l’assegnazione delle terre del JNF (Jewish National Fund), il 13% delle terre di tutto lo Stato d’Israele, ai cittadini non ebrei. La legge è stata approvata con una maggioranza schiacciante, 64 deputati a favore e con soli 16 voti contrari. Non ha avuto alcun effetto la discussione preliminare al voto nella Presidenza della stessa Knesset dove varie voci si erano levate contro tale provvedimento e ne avevano chiesto l’annullamento. Richiesta respinta dal servizio legale del Parlamento con la giustificazione che ‘non c’è un esplicito riferimento razzista nella legge’. Come chiamare allora l’esclusione per i cittadini arabo-israeliani dai bandi per l’assegnazione delle terre? Come altro chiamare, se non razzista, questa legge definita proprio da alcuni deputati della Knesset come ‘abominevole’, che serve solo ad istituzionalizzare la discriminazione nei confronti dei non-ebrei e legittima una democrazia su base etnica? Questa legge è solo una delle tante espressioni di razzismo e discriminazione in atto in Israele, che continua a demolire le case dei suoi cittadini arabi, a espropriare illegalmente le loro terre, a sradicare i loro alberi. (…)» (Fonte: http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o9453, luglio 2007; ed ancora: «Terra Santa e l’infamia: Palestinesi schiacciati tra i coloni e il muro. Negli ultimi 12 anni, la popolazione israeliana delle colonie costruite all’interno della Cisgiordania palestinese è aumentata del 107%, raggiungendo raggiungendo le 270.000 unità alla fine dello scorso anno; nello stesso periodo, il totale di quella israeliana è aumentata del 29%. Lo rende noto un rapporto diffuso ieri da Ariel university center, un istituto accademico della Samaria i cui ricercatori hanno individuato nel trend migratorio e in quello dell’elevato indice di natalità i due principali fattori di un aumento che ha portato gli israeliani residenti in Cisgiordania dai 130.000 del 1995 ai 270.000 di 12 mesi fa. ‘Con un indice di crescita così elevato - hanno detto i responsabili dell’organizzazione pacifista israeliana Peace now - sarà impossibile poter arrivare a un accordo di pace’. In base ai dati raccolti dai ricercatori dell’università israeliana, la popolazione che vive nelle colonie è generalmente giovane (età media di 26 anni) e ha un indice di criminalità maggiore del 22% rispetto alla media nazionale; la sua crescita annua è inoltre pari al 5%, oltre tre punti in più rispetto alla media di Israele. La loro presenza, illegale e contro varie risoluzioni dell’ONU, continua a essere sostenuta da Israele anche in zone ‘sensibili’ come Hebron dove poche centinaia di coloni sono pretesto per politiche ancor più discriminatorie nei confronti dei palestinesi; a loro protezione Tel Aviv ha progettato un muro divisorio che spesso gira attorno agli insediamenti tagliando fuori non solo i palestinesi ma anche ampi tratti di terre coltivate da questi ultimi con conseguenze di vario genere, non soltanto economiche. Condannando questi tortuosi giri del muro, la Suprema corte israeliana ha ‘intimato’ ieri al governo di provvedere a ridisegnare parte del percorso. La sentenza fa riferimento, in particolare, al caso del villaggio di Bilin che è diventato suo malgrado simbolo della resistenza palestinese contro un insediamento israeliano di 40.000 persone al quale era stata trasferita la proprietà di un’estensione di terra di oltre 160 ettari, ovvero la metà del suo territorio» (Agenzia Misna del 16.12.2008, http://www.misna.org/news).
3) Citiamo da F. Cardini - M. Montesano «La lunga storia dell’Inquisizione - luci ed ombre della ‘leggenda nera’» (Città Nuova, Roma, 2005, pagine 79-80): «I crescenti casi di conversione più o meno forzata, che riempivano la Chiesa di cristiani quanto meno sospetti, preoccupò l’Inquisizione. Tuttavia la Chiesa non incoraggiò mai le sollevazioni popolari contro gli ebrei (…). Non a caso, le regioni direttamente governate dal Papa furono quelle nelle quali gli ebrei si trovavano meglio ed erano più sicuri». Riportiamo inoltre il testo di un documento da noi personalmente rinvenuto in una riproduzione decorativa di un pubblico locale bolognese: «Bando e proibizione a molestare ovvero fare ingiuria agli ebrei», pubblicato in Bologna al 3 novembre 1588 MDLXXXVIII. «Avendo Sua Santità di Nostro Signore Sisto V Papa per le cause che a ciò hanno mosso l’animo di Sua Beatitudine concesso e permesso che gli ebrei possino venire ad abitare in questa città… ordina e comanda che persona alcuna dell’uno e dell’altro sesso di qualsivoglia stato, grado, condizione e età non ardisca né presuma molestare, inquietare, né turbare, o ingiuriare in modo alcuno di fatti, o parole, Ebreo alcuno né maschio né femmina di qualsivoglia età, sotto pena di scudi 50 a chi l’offenderà o ingiurierà con parole, e di 100, e tre tratti di corda, a chi l’offenderà personalmente con altre pene ad arbitrio di Sua Signoria Reverendissima d’applicarli ipso facto alla Camera, e in ciò si crederà al detto dell’Ebreo ingiuriato, e offeso, col giuramento e qualche altro adminiculo, e si procederà all’esecuzione di esse senza remissione alcuna. In fede & C. Di Palazzo il dì 2 d’Ottobre 1588. Cam. Burg. Viceleg. Herc. Band. Vex. Iust.».
4)
Confronta Maurizio Blondet «In Europa si può essere nazisti. Non tutti però» in www.effedieffe.com 11/12/2008
5)
Confronta E. Zolli «Prima dell’alba - autobiografia autorizzata», San Paolo, Milano, 2004.
6)
Confronta editoriale di G. Sabattucci su Il Messaggero del 17/12/2008.
7)
Si tratta di un articolo, anzi di due articoli, di Vittorio Messori pubblicati nel 2004 sulla rivista Il Timone. Rimandiamo i lettori per i necessari approfondimenti a questi due articoli perché sono il frutto di minuziose ed accuratissime ricerche storiche fatte da Messori accedendo direttamente agli archivi della rivista dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica», che come è noto rappresenta, nel tempo, le posizioni ufficiali del Papa.
8)
Confronta «Fini ‘scivola’ su leggi razziali e Chiesa» in Avvenire del 17 dicembre 2008.
9)
Confronta «Fini ‘scivola’ …» citato.
10)
Confronta «Fini ‘scivola’ …» citato.
11)
Confronta «Fini ‘scivola’ …» citato.
12)
Confronta «Storici contro Fini. Leggi razziali: la Chiesa reagì», in Avvenire del 17 dicembre 2008.
13)
Confronta «Storici contro Fini…» citato.
14)
Confronta «Storici contro Fini…» citato.
15)
Confronta «Storici contro Fini…» citato.
16)
Confronta  Marie-Anne Matard-Bonucci «L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei», Il Mulino. Vedasi l’intervista su Avvenire del 20 giugno 2008, dalla quale sono tratte le citazioni da noi riportate.
17)
Confronta F. Giannini «I casti divi e l’olocausto» in www.effedieffe.com 17/12/2008. Da questo articolo riprendiamo le citazioni di questa parte del nostro intervento.
18)
Confronta E. Zolli «Prima dell’alba …» opera citata, pagine 176-177.
19)
Confronta E. Innocenti «La conversione religiosa di Benito Mussolini», Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2001.
20)
Confronta Luciano Garibaldi «Vita col Duce - l’attendente di Mussolini, Pietro Carradori, racconta», Effedieffe, Milano, 2001. Anche Carradori ricorda la testimonianza, riportata da Ennio Innocenti, di padre Ginepro, uno dei confessori dell’ultimo Mussolini, per la quale il Duce il 14 dicembre 1943 gli confidò: «Da giovane ero eretico, con la Conciliazione sono diventato religioso in politica, ora mi sento religioso anche nella mia vita intima» nonché quanto Mussolini ebbe a dire, pochi giorni prima della firma dei Patti Lateranensi, alla nipote Rosetta Mancini, figlia della sorella Edvige: «Quando leggerai sui giornali la notizia dei Patti tra lo Stato italiano e la Chiesa, ricordati del segno della Croce che mia madre, tua nonna, mi tracciava sul capo ogni sera, mentre io mi addormentavo nella nostra povera casa di Dovia». Dal canto suo, Romano Mussolini ebbe spesso a ricordare del sogno che sua madre, donna Rachele, gli raccontò di aver fatto, poco dopo la morte del marito, nel quale il padre la assicurava sulla sua salvezza eterna in Purgatorio: fatto che sembrerebbe essere stato confermato da suor Maria Aiello, una serva di Dio stigmatizzata della quale è in corso l’iter della beatificazione, che fu molto vicina a Mussolini nella preghiera, al punto che tramite la sorella Edvige gli fece pervenire un messaggio, nei mesi del 1939/40 nei quali il duce stava decidendo per la guerra, secondo il quale Cristo lo ammoniva per il bene suo personale e dell’Italia a non entrare nel conflitto. Secondo questa mistica Mussolini sarebbe stato «suscitato» dalla Provvidenza affinché l’Italia tornasse a riappacificarsi con la Chiesa, motivo per il quale ora il Cielo interveniva a salvifico ammonimento per colui che era stato suo strumento, come aveva ben compreso proprio Pio XI che lo definì, in occasione della Conciliazione, «l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare». «Coincidenza» singolare: negli stessi giorni nei quali gli giungeva il messaggio della Aiello perveniva a Mussolini anche quello di Papa Pacelli che lo implorava a risparmiare la sciagura della guerra all’Italia. Pare che Mussolini commentasse il messaggio della Aiello affermando che ormai non gli era più possibile fermare gli eventi in corso.
21) Ci rifacciamo ampiamente, per quanto riguarda le ultime scoperte di padre Sale, a Filippo Rizzi «Pio XI: leggi razziali vergogna italiana», in Avvenire del 13 novembre 2008.

 

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